A volte bisogna sognare,
pensare a se stessi, alla propria vita, nel contesto storico e geografico in cui la viviamo, per fare e immaginare altro.
Solo il sapiente Antonio Moresco può misurarsi con l’impavido cavaliere errante senza uscirne con le ossa rotte e disarcionato.
Lo fa con la consueta tenacia di chi ha saputo attendere quindici anni per vedersi pubblicato, unito al suo essere oggi, il suo stile una vera e propria rock star, per chi scrive e non solo, lo fa divertendosi e sognando di fare altro: sognando il cinema.
Marzullianamente potremmo definire questo suo lavoro con un:
– È il romanzo che si presta ad essere la sceneggiatura di un film, o è la sceneggiatura che assume la forma del romanzo?
La domanda non può che restare senza una risposta oggettiva, in fondo a volte conta più farsi delle domande che darsi una risposta.
Di sicuro però la visione del Chisciotte di Moresco ci folgora, così come la chiave escatologica della sua visione di Dulcinea del Toboso.
Non amo raccontare troppo delle trame nelle mie folgorazioni ma qui è diverso, ho pensato molto se inserire questo scritto di Moresco tra le Divinità, ci starebbe a pennello.
Eppure, ho scelto di essere sedotto dalla folgorazione di rivederlo davanti allo schermo, con il suo essere fisico così Chisciottesco di natura, tanto da riuscire già a immaginarmelo parlare, con l’inflessione mantovana, con Emily Dickinson, evacuante come lui la vede, con il buon e barbuto Melville, quasi novello Wolverine, e perché no, con il giovane e apprendista bambino Pinocchio.
Si narrava che stesse lavorando realmente su un film, un Chisciotte moderno, ambientato in una clinica psichiatrica.
Pensavamo fosse uno scherzo: i soliti burloni che prendono in giro i novizi.
Invece ce lo racconta così amabilmente nella postfazione del volume, la cui copertina merita di non essere svelata nella nostra anteprima, e noi rimaniamo folgorati ed in attesa di poterlo ammirare sullo schermo con la sua ancestrale Dulcinea, aspettando il Sancho che si meritano.
Stefano Foglia